La narrazione visiva come resistenza. Questo è il lavoro di Matteo Trevisan, storyteller che raccoglie potenti testimonianze di comunità marginalizzate e luoghi di conflitto, documentando realtà spesso ignorate con uno sguardo profondamente umano e attento.

Matteo Trevisan è un fotografo documentarista e videomaker, rappresentato dall’agenzia Contrasto, che si divide tra Roma, città in cui vive e lavora, e Gorizia, suo luogo d’origine. Nel 2018, dopo aver studiato fotografia presso la scuola ISCFC di Roma e frequentato alcuni corsi di specializzazione a Officine Fotografiche Roma, ha iniziato a lavorare come fotografo e videomaker. Appassionato alpinista nato nella terra di confine tra Italia e Slovenia, i progetti di Trevisan si concentrano principalmente su tematiche sociali, in particolare legate all’ambiente e all’antropologia. Le sue fotografie sono state pubblicate da importanti riviste come New York Times, The Guardian, Wall Street Journal, Internazionale, National Geographic Italia, Espresso e altre ancora. Attualmente sta lavorando a un progetto personale sulla regione italiana Friuli Venezia Giulia e a un progetto ambientale a lungo termine nei Balcani centrali. Nel 2022 ha vinto il Premio FotoLeggendo – Festival ideato e prodotto da Officine Fotografiche Roma – come miglior portfolio con il progetto We are still dreaming.

Nel mese di novembre (venerdì 8 novembre) verrà presentata allo Studio Tommaseo di Trieste (via del Monte 2/1) We are still dreaming l’indagine visiva di Matteo Trevisan su alcuni giovani under 30 che vivono in val di Susa. L’incontro con questi giovani ritratti dal fotografo sarà l’occasione per raccontare le cicatrici sociali che le grandi battaglie collettive lasciano sugli individui. “We are still dreaming è una ricerca sul campo del giovane fotografo goriziano sugli abitanti che vivono in val di Susa e che hanno subito direttamente e anche indirettamente la minaccia del cambiamento di una delle valli alpine più selvagge d’Italia minacciata da oltre 20 anni di lavori per il Treno Alta Velocità (abbreviato in TAV).Il movimento No TAV, nato nei primi anni ’90, cerca da più di 20 anni di opporsi alla costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione, considerata uno spreco di denaro pubblico e un danno al territorio. In questi anni il movimento è rimasto l’ultimo baluardo di protesta civile diventato anche il movimento più longevo mai esistito in Italia e la val di Susa ha il triste primato di luogo più militarizzato in questo paese. Nelle fotografie del suo progetto We are still dreaming, Matteo Trevisan ha visitato e conosciuto molte persone della comunità e racconta la lotta attraverso i loro volti e il loro ambiente circostante. Questo lavoro è un ritratto intimo di una generazione che ha trascorso la vita a combattere, a sfidare, a essere arrestata, e a protestare. All’inaugurazione, che si terrà venerdì 8 novembre alle ore 18, interverranno la curatrice della mostra, Annalisa Polli, e il fotografo Matteo Trevisan. Durante l’evento discuteranno di fotogiornalismo e di come questo viene trattato dai media italiani e internazionali.

Matteo Trevisan sarà inoltre docente di Visual Hub con il corso che si terrà ad ottobre Narrare storie per immagini a Stage21 Trieste.

Come è iniziata la tua voglia di documentare attraverso l’obiettivo?
La voglia di documentare è sicuramente nata dalla mia curiosità, che ricordo di aver avuto fin da bambino verso ciò che non conoscevo o non capivo. A un certo punto mi sono reso conto che la fotografia poteva essere uno strumento che mi permetteva, quasi mi “autorizzava”, a ricercare questo sconosciuto. Poi, con il passare del tempo, le cose sono mutate nuovamente e mi sono reso conto che con la fotografia potevo non solo documentare, ma anche raccontare delle storie.

Come ti documenti prima di scegliere un argomento di cui trattare?
Sicuramente leggo molti libri, per la maggior parte saggi, ma anche romanzi. Diventano anche un modo per capire quanto un progetto possa diventare importante per me; dopo il terzo libro, solitamente capisco che ci tengo molto. Poi, ovviamente, guardo documentari, film, leggo articoli e cerco anche altri lavori sul tema realizzati da altri fotografi. Parlo anche con i ricercatori, che solitamente sono le persone più preparate e anche le più disponibili.

Essendo cresciuto in una terra di confine tra Italia e Slovenia, come questo concetto di “confine” ha influenzato la tua visione del mondo e il tuo approccio alla fotografia?
È una domanda difficile, che spesso mi pongo anch’io, e trovare una risposta non è semplice. Sicuramente questo confine, i luoghi del confine e le sue storie hanno plasmato la persona che sono, non solo la mia, ma anche quella di tutte le persone che vivono in questa parte d’Italia. Posso dire che ha influenzato anche il mio approccio fotografico. Essendo un’area ricca di storie e culture che si incontrano, ma allo stesso tempo poco conosciuta, forse mi ha portato a ricercare storie non mainstream, non strettamente legate alle “news”, che sono ovviamente importanti da seguire. Apprezzo tantissimo chi dedica la sua vita professionale a questo, ma io preferisco concentrarmi su temi forse poco affrontati o raccontati con superficialità. In ogni caso dall’incontro con l’altro e anche dalla ruralità che è parte di questa zona e che mi rendo conto ricerco visivamente nei miei progetti.

Puoi raccontarci di più sul tuo progetto I me paìs al è colòur smarìt (Il mio paese è di colore smarrito) riguardante la regione Friuli Venezia Giulia e cosa ti ha spinto a cercare di raccontare il tuo territorio natio?
All’inizio è stata una necessità. Erano diversi anni che non abitavo più in Friuli e, a un certo punto, ricordo ancora bene quel giorno, stavo guidando la macchina su una strada che avevo percorso tantissime volte e guardando fuori dal finestrino sono rimasto affascinato dal paesaggio. Era come se lo vedessi per la prima volta e da lì ho iniziato, in maniera quasi compulsiva, a fotografare casa e i territori in cui ero cresciuto. Era diventata quasi una forma di riconciliazione con questi luoghi. Poi, con il tempo, la cosa si è evoluta. Mostrando queste immagini a persone che non conoscevano questi luoghi, mi sono reso conto che erano per lo più zone sconosciute. Da lì ho sentito la voglia, e anche la necessità, di raccontare casa e i luoghi in cui sono cresciuto, che reputo interessanti da un punto di vista visivo, storico e anche culturale. Forse avevo bisogno di staccarmi per qualche anno per capirlo.

Door to Europe parla della rotta balcanica. Puoi raccontarci la tua esperienza su quei territori e cosa ti spinge ad esplorare l’est dell’Europa?
Ho sempre subito una fascinazione per i Balcani, ma solo recentemente ho iniziato a capire cosa mi attirasse. Penso che siano la parte d’Europa che ancora non si è omologata. Sono luoghi molto complessi, dove la politica è imprevedibile, c’è una storia pazzesca, c’è molto misticismo, sicuramente non quello indiano che l’immaginario comune immagina, e sono luoghi in movimento. La mia prima esperienza lì come fotografo è avvenuta un po’ per caso, grazie a un incontro direi fondamentale. Era il 2018, ero a Roma e stavo fotografando una manifestazione. Stavo ancora terminando il master. Mentre ero seduto su un guardrail a fumarmi una sigaretta, mi si avvicina un fotografo, Danilo Balducci, che conoscevo di nome perché comunque ha tanti anni di esperienza ed è un bravissimo fotografo, e iniziamo a parlare. Da lì, insomma, mi dice che sarebbe partito a breve per andare sul confine croato-bosniaco per documentare la rotta dei migranti e mi ha invitato ad andare con lui. Ovviamente ho detto subito di sì, e tra l’altro, per partire, ho dovuto chiedere un prestito in banca. Comunque, questo viaggio è stato importantissimo per tanti motivi. Era la mia prima esperienza sul campo all’estero, potevo lavorare con un grande professionista con cui poi sarei diventato amico, ed è stato il mio primo impatto con i Balcani fuori dai soliti posti turistici. È stato un innamoramento per questi luoghi.

In La Camera Chiara di Roland Barthes, il punctum è quell’elemento di una fotografia che colpisce profondamente l’osservatore. C’è una tua foto che consideri particolarmente significativa, che ha avuto un impatto emotivo forte su di te? Puoi descriverla e raccontare la storia dietro di essa?
A livello personale, ci sono tante foto che hanno avuto un impatto forte su di me. Solitamente me ne accorgo quando sono lì, nel momento dello scatto, e mi rendo conto che trattengo il respiro mentre fotografo. Mi sembra che siano quelle le immagini e i momenti che emotivamente mi toccano di più. Direi che è una sensazione nell’atto di fare la fotografia, non a posteriori, guardandola. Quello è un atto che lascio a chi la fruisce/subisce, perché il mio “lavoro” finisce dopo aver scattato. Spero che alcune immagini possano aver toccato emotivamente l’osservatore. Ce n’è una, però, che tengo privata, scattata durante una camminata notturna a Roma. È una foto di fiori dietro un cancello. Ha rappresentato per me un momento di connessione forte; erano mesi grigi a livello personale e quella fotografia ha funzionato come momento di riconciliazione con me stesso, grazie a un atto fotografico.

Narrare storie per immagini con Matteo Trevisan

Nelle foto: Foto tratte dalla serie, We are still dreaming, 2022. Matteo Trevisan, ritratto. (tutte le foto: courtesy Matteo Trevisan)