Il complesso equilibrio della prospettiva nelle foto di Marco Covi

La fotografia di architettura è un campo che si fonda sulla precisione e sull’interpretazione visiva delle strutture, dove la prospettiva e le linee dominano la scena. Ogni immagine diventa un racconto che mette in evidenza la geometria e l’essenzialità degli spazi, con una forte attenzione ai dettagli e alla luce. La luce, già presente negli ambienti, non può essere modificata, ma soltanto catturata, rivelando la sua interazione con le superfici e le forme architettoniche.
Come ha detto Ansel Adams, “Dobbiamo tener presente che una fotografia può contenere soltanto quello che ci abbiamo messo dentro, e che nessuno ha mai saputo sfruttare appieno le possibilità di questo mezzo d’espressione” (Wikipedia). Questa riflessione è appropriata per analizzare il lavoro di Marco Covi, che sa come plasmare l’equilibrio della prospettiva, riuscendo a documentare la profondità e la geometria degli spazi e, al contempo, a mantenere un legame con la realtà architettonica.

Abbiamo avuto il piacere di incontrare Marco Covi a margine di un evento organizzato da Trieste Contemporanea in collaborazione con Visual Hub allo Studio Tommaseo. Il seminario, intitolato L’editoria e la fotografia per lo studio dell’architettura contemporanea, è stato realizzato in occasione del finissage della mostra Spazi di carta. Indagine sentimentale sull’editoria di architettura nel lungo secondo dopoguerra italiano curata da Giulio Polita. Durante l’incontro, Covi ha approfondito la sua visione della fotografia architettonica, sottolineando l’importanza di prendere posizione come fotografo, un concetto che implica una scelta personale che riflette il proprio punto di vista sulla realtà architettonica. La conversazione, condotta da Annalisa Polli di Visual Hub, ha trattato anche della specificità della fotografia di architettura, con esempi tratti dal Friuli Venezia Giulia.

Marco Covi è un fotografo ed ha realizzato campagne fotografiche per istituzioni e organizzazioni, nonché reportage editoriali per diverse riviste. Ha collaborato con rinomati studi di architettura e design e importanti testate del settore, agenzie di comunicazione in Italia e all’estero e importanti aziende del settore del design. Dal 2007 collabora stabilmente con la casa editrice Mondadori (Mondadori Arte, Electa, Mondadori Portfolio).

 

 

Cosa ti ha spinto a dedicarti in particolare alla fotografia d’architettura?

Potrà sembrare banale, e probabilmente lo è, ma prima di tutto il mio interesse per l’architettura, grazie ai miei studi universitari. In secondo luogo, un’esperienza professionale decisiva: gli anni trascorsi presso lo studio Tassinari/Vetta proprio in concomitanza con il loro nuovo progetto editoriale per la rivista Casabella, per cui svolgevo un primo lavoro di selezione sui materiali iconografici che arrivavano dai vari studi di architettura o dalla redazione di Milano. Sostanzialmente si trattava di un lavoro di mediazione tra l’inevitabile abbondanza della documentazione originale e la necessaria sintesi imposta dalle esigenze di impaginazione: un esercizio che si è rivelato molto prezioso per imparare i codici della rappresentazione fotografica dell’architettura, sia in termini descrittivi (quali viste sono essenziali per rappresentare un manufatto) che, per così dire, narrativi (l’importanza di un percorso coerente nella sequenza di immagini).

Marco Covi, Trieste

Le tue scelte stilistiche nella fotografia d’architettura sono molto precise e riconoscibili. Quali sono le ossessioni che ti guidano quando fotografi edifici o spazi?

Nonostante siano ormai molti anni che fotografo, durante i quali penso effettivamente di aver maturato un mio modo di guardare, continuo a stupirmi quando qualcuno mi fa notare che avrei uno ‘stile’ riconoscibile. La cosa ovviamente non può che farmi piacere, anche se ho ben presente l’insegnamento di Walker Evans, forse il mio fotografo preferito, a cui naturalmente non oso paragonarmi, che, parafrasando Flaubert, sosteneva che il fotografo dovrebbe essere come Dio, invisibile e onnipotente. Se poi provo a pensare alle mie ossessioni fotografiche, mi sembra di essere riuscito a dare loro un nome più grazie alla letteratura che attraverso la pratica della fotografia. Penso ad esempio a Peter Handke e a Gianni Celati, nei quali ho ritrovato, seppure con registri molto diversi, la stessa struggente tenerezza verso il mondo, che si manifesta nel guardare verso il fuori, senza aspettative né pregiudizi, ma anche alla recente scoperta di Jon Fosse, per il quale l’opera deve ‘venire da sé, come un evento, come un dono. Nulla di soprannaturale tuttavia, si tratta semmai di imporre una disciplina alla voracità onnivora dello sguardo; un paziente esercizio di educazione, oserei dire più all’ascolto che alla semplice osservazione dei luoghi – lo stesso Evans disse che ci vuole un ‘orecchio sofisticato’ – per arrivare, auspicabilmente, a quella sensibilità che il grande fotografo americano Stephen Shore definisce heightened awareness.

Oltre alla fotografia, insegni anche all’Accademia di Belle Arti di Udine GB Tiepolo. Come approcci l’insegnamento della fotografia digitale e quali competenze vuoi trasmettere ai tuoi studenti?

In realtà la mia collaborazione con l’ABA Udine è terminata l’anno scorso, mentre prosegue con soddisfazione quella con la sede di Vicenza dello IUAV di Venezia, dove dal 2023 sono responsabile dell’Officina foto/video. In generale, considero molto positivi gli anni di insegnamento, perché fin dall’inizio li ho vissuti come una grande responsabilità nei confronti degli studenti e come una preziosa opportunità per interrogarmi sulle ragioni dell’essere fotografo, al di là di una generica e insidiosa indulgenza verso la propria creatività. Ovviamente un percorso di insegnamento non può prescindere dalla trasmissione delle regole, quella che possiamo definire la grammatica, così come quella della storia del medium in oggetto. Il fatto poi che si parli di Fotografia digitale è di importanza relativa, sia dal punto di vista storico (parliamo di poco più di vent’anni su quasi duecento) che strettamente linguistico, se così si può dire. Quello su cui ho maggiormente concentrato i miei interessi didattici sono stati i meccanismi linguistici e le potenzialità narrative della trasformazione operata dalla fotografia sulla realtà.
Ai miei studenti ho così proposto progetti fotografici che prevedessero la frequentazione di luoghi ‘qualsiasi’, privi cioè di apparenti qualità, per stabilire con essi e con le persone che li popolano una relazione diversa da quella distratta che dedichiamo loro abitualmente. Contro i rituali consolidati della comunicazione, la sfida è stata quella di imporre un tempo diverso da dedicare all’osservazione del mondo sensibile per lasciare affiorare le storie oltre la superficie, in un processo di conoscenza (o meglio di riconoscimento come insegna il filosofo Byung-chul Han) di cui lo scatto fotografico è soltanto l’ultimo passo.

Ti sei mai chiesto come sarebbe stato il libro di Walter Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica se fosse stato scritto oggi, con i nuovi media e l’infinita riproducibilità digitale?

Mi sbaglierò ma mi sembra che da allora non sia cambiato poi molto: quello è l’ambito in cui la nostra sensibilità estetica si è formata e seppure si tratti di un processo in continua e rapidissima evoluzione tecnologica (e forse di generale involuzione di gusto) direi che siamo ancora all’interno dell’orizzonte presentato da Benjamin negli anni 30 del Novecento. Se ci pensiamo, nel frattempo la pittura e le altre arti ‘non riproducibili’ non sono certo finite: da Cézanne in poi hanno trovato sempre nuovi spazi, nuove modalità e linguaggi con cui esprimersi, anche servendosi delle tecnologie più innovative, e mi piace pensare che questa sia la vocazione di ogni manifestazione artistica di fronte all’irruzione della novità che scombina le carte. Forse una nuova frontiera potrebbe essere rappresentata dall’avvento dell’intelligenza artificiale che sembra mettere radicalmente in discussione un fondamento che nell’arte resiste da millenni e che ha sostenuto l’urto della fotografia e del cinema: il rapporto con la realtà. Se la pittura aveva instaurato con il mondo un legame di somiglianza e la fotografia ha trasformato questa relazione in un’impronta diretta della realtà sulla superficie sensibile, qui non c’è più traccia fisica del reale, nessuna luce riflessa da un oggetto, nessuna materia che si deposita su un supporto, analogico o digitale che sia. A differenza della fotografia, la cui essenza secondo Barthes è l’è stato, la sintografia mi pare che apra a un inquietante potrebbe essere, un’immagine sempre al tempo presente che si autogenera e rigenera senza alcuna relazione con il mondo sensibile. Non più imitazione né registrazione, ma un’elaborazione che assume l’apparenza del reale. In sostanza, se già novant’anni fa l’aura dell’opera d’arte veniva meno con la riproducibilità tecnica, cosa accade al giorno d’oggi quando l’immagine non è più nemmeno riproduzione, ma pura simulazione? Ecco, ammesso che sia corretta la mia interpretazione, io mi fermerei qui, nel senso che non sono in grado di comprendere quale possa essere il rapporto che una sintografia intrattiene o meno con una realtà di cui non contiene più alcuna traccia ma a cui si propone di assomigliare molto più di quanto possa fare un dipinto. A pensarci bene, forse il punto non è nemmeno se la sintografia abbia un legame con la realtà, ma quale modello di realtà stia proponendo e come la nostra percezione si stia rapidamente adattando a questo nuovo statuto dell’immagine. Temo che dovremmo chiederlo a Benjamin stesso.

Marco Covi, Trieste

 

Come pensi che i concetti di unicità e autenticità nell’arte si siano evoluti?

Non credo che siano messi in discussione dalle nuove tecnologie, non più di quanto la pittura avesse da temere alla comparsa della fotografia o, per rifarsi alla domanda precedente, non più di quanto non fosse già evidente ai tempi di Walter Benjamin. Posto che non mi ritengo un artista, non credo che dovremmo occuparci della moltitudine di ‘adoratori del sole’, per dirla con Baudelaire, ma di riconoscere che ci sono – e credo che ci saranno sempre – enormi margini di intervento nella traduzione della realtà operata
dalla fotografia. Faccio mia la lezione di John Berger sulle apparenze del mondo come legenda, cioè letteralmente come materiale da leggere, da interrogare con pazienza per far emergere un (possibile) significante che si cela dietro la superficie. In estrema sintesi credo che finché ci sarà una realtà da guardare ci saranno le condizioni per preservare l’unicità e l’autenticità dell’opera d’arte, a prescindere dal medium utilizzato. Il problema attuale risiede a mio avviso nel fatto che siamo assuefatti al guardare il mondo sovrapponendogli un’aspettativa di senso predefinita, un significato che abbiamo già in mente e di cui cerchiamo semplicemente conferma (dalla foto ricordo in su) basandoci categorie omologate ed omologanti. In poche parole, non sappiamo più guardare senza pregiudizi e al tempo stesso manchiamo di consapevolezza rispetto all’atto del guardare. Forzando un po’ i termini del discorso, direi che alla finestra dell’Alberti, che si affacciava sull’esterno del mondo per dare forma e regola alla sua rappresentazione bidimensionale, abbiamo sostituito quella digitale dello smartphone, illusoriamente aperta su una realtà immensamente più vasta ma al tempo stesso appiattita su uno schermo e impoverita perché priva tanto dei codici di interpretazione che dell’esperienza fisica dello spazio. Molto modestamente, come ho già detto, trovo che la sfida si giochi sul terreno del riconoscimento di quello che si presenta davanti ai nostri occhi; penso ad esempio a Paul Strand, che raccontava come si lasciasse chiamare dalle cose da fotografare, quelle a cui Jonathan Franzen riconosce ‘la bellezza della seconda occhiata’. Oppure, per rimanere in ambito letterario, non posso fare a meno di citare Scorze di Georges Didi-Huberman, un libro che mi ha accompagnato negli ultimi anni: il racconto di un viaggio a Birkenau alla ricerca di tracce apparentemente insignificanti da cui ricostruire la memoria di ciò che non è più visibile. Come ammonisce Didi-Huberman: ‘Non si può quindi mai dire: non c’è niente da vedere, non c’è piú niente da vedere. Per saper dubitare di quello che si vede, bisogna saper vedere ancora, vedere nonostante tutto’.

Esiste un’estetica che consideri particolarmente “pericolosa” o problematica nel mondo della fotografia e dell’arte contemporanea?

Ammetto di non essere particolarmente attento alle tendenze attuali del dibattito artistico ma, in generale, provo un sacro orrore per la logica del consumo e per le ritualità nevrotiche che caratterizzano la comunicazione all’epoca dei social media. Già Susan Sontag, in anni non sospetti, ci ha messi in guardia sull’uso della fotografia come surrogato dell’esperienza, ma credo che nemmeno lei potesse immaginare le conseguenze della sua intuizione. Se un tempo le proiezioni serali delle diapositive delle vacanze – per quanto a volte estenuanti – rappresentavano ancora un’occasione di socialità condivisa, oggi ci troviamo immersi in un’estetica autoreferenziale della ricompensa. Il feticcio del like, da ottenere o elargire con finalità perlopiù utilitaristiche, riflette un bisogno ossessivo di consenso, l’illusione di emergere dall’indifferenza generata da miliardi di immagini scattate e ‘condivise’ ogni giorno. Si tratta di un fenomeno di fronte al quale è impossibile non interrogarsi. Io stesso sto riflettendo sulle condizioni che permettono il ‘riciclo’ di una fotografia, inteso come una nuova attribuzione di senso in chiave narrativa. È un tema che trovo molto affascinante, a patto però di rimanere saldamente legati al fare fotografia. Lo dico in riferimento alle possibili declinazioni della cosiddetta Postfotografia teorizzata da Joan Fontcuberta, secondo cui – semplificando per limiti miei e di spazio – siamo ormai talmente pervasi da immagini fotografiche da rendere superfluo scattarne di nuove. Per carità, si tratta di teorie interessanti che hanno ispirato progetti di eccellente spessore, penso ad esempio alla monumentale opera di Erik Kessels, ma l’invecchiare, tra tante spiacevoli conseguenze, porta con sé un’appagante indipendenza di giudizio e voglio credere che tra un’estetica e l’altra mi rimangano dei margini operativi come fotografo. Dopo tanti anni di fotografia commerciale e superata una fase di doverosa curiosità verso le tendenze più accattivanti, così come verso le dinamiche da social media o e le nuove tecnologie, la mia modesta aspirazione sarebbe sostanzialmente quella di ‘ritirarmi’ nel dialogo silenzioso con le apparenze del mondo. Un’esigenza di igiene dello sguardo, diciamo, per tornare alla lezione della Sontag.

In La Camera Chiara di Roland Barthes, il punctum è quell’elemento che colpisce profondamente l’osservatore. C’è una tua fotografia che consideri particolarmente significativa. Puoi raccontarci la storia che questa foto non sa dire?

Ho sempre avuto un rapporto molto critico con le mie foto e mi è francamente difficile giudicarle interessanti; ammesso che lo siano, penso che questo compito spetterebbe eventualmente ad un osservatore interessato e attento e credo, tra l’altro, che a questo faccia riferimento Barthes nel definire il concetto di punctum come qualcosa che punge, che ferisce lo sguardo e buca la superficie dell’immagine. Se devo proprio citare una mia foto, scelgo uno scatto che per me è particolarmente significativo più per le condizioni che l’hanno suscitato che per ragioni squisitamente fotografiche. Si tratta di una foto scattata a San Francisco al termine di un’esperienza negativa, sia dal punto di vista professionale che, di riflesso, personale. In quell’occasione l’arrivo al mare dopo una lunga camminata ha letteralmente rappresentato la possibilità della liberazione da ciò che mi stava assillando. La foto, in fondo, ha colto una scena del tutto ordinaria che però per me ha avuto la forza di una rivelazione casuale ed inaspettata. In essa il tempo e il movimento di quello che sta accadendo sembrano rimanere sospesi: al centro un gabbiano galleggia nel cielo, un altro è appoggiato su un palo ma è pronto a spiccare il volo; sulla sinistra dell’inquadratura l’ombra di un pontile potrebbe avanzare oppure recedere, così come il traghetto sulla destra è colto a metà del movimento che può allontanarlo o avvicinarlo alla banchina. Infine, due elementi contribuiscono ad arricchire il significato della foto: sullo sfondo compare la sagoma minacciosa dell’isola di Alcatraz, a ricordare che la salvezza non è ancora conquistata, a cui fa però da contrappunto il varco nero della porta nell’angolo destro, quasi mi si offrisse in extremis una scappatoia. Anni dopo, rivedendo quella foto, ho compreso perché l’avessi scattata e perché la sentissi ancora così vicina. L’innesco è venuto da un celebre episodio raccontato da Senofonte nell’Anabasi, quando i soldati greci, inseguiti dai nemici e demoralizzati da una ritirata disordinata esplodono in grida di gioia nel giungere all’improvviso davanti al mare, l’agognata via di fuga verso la salvezza. Ecco, in quel grido: il mare! il mare! si manifesta il mio personale punctum; quella è la ferita da cui emerge il significato di questa foto, o meglio la sua ‘durata’, per usare un termine che mi è molto caro.

Marco Covi, San Francisco

 

Nelle foto: ritratto. Foto: Trieste e San Francisco (tutte le foto: courtesy Marco Covi)