Un mondo dalle radici in evoluzione. Per Alba Zari, le radici sono un punto di esplorazione personale. L’abbiamo incontrata a Trieste e abbiamo apprezzato la semplicità e l’immediatezza che emergono già dai suoi lavori più intimi, come il bellissimo libro ‘The Y’ (Witty Books, 2019), una narrazione per immagini che rivela aspetti della sua continua ricerca.

Alba Zari, fotografa e documentarista nasce in Thailandia dove vive fino all’età di 8 anni. In Italia abita prima a Trieste, poi a Bologna dove si laurea al DAMS in cinematografia per poi specializzarsi in fotografia e visual design alla NABA, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, proseguendo gli studi in fotografia documentaria all’International Center of Photography di New York. Nei suoi lavori, c’è tutta la riflessione e la sua sensibilità artistica ed un approccio alla complessità della mente umana e un costante dialogo tra passato e presente, memoria e innovazione, tra umano e IA, tra verità ed autenticità.

Alba Zari sarà inoltre docente di Visual Hub con il corso Il vaso di Pandora. Un approccio concettuale all’archivio che si terrà il 5-6 ottobre a Stage21 Trieste.

Hai una vita da nomade. Cosa consideri come le tue radici?
Le mie radici sono il luogo dove vivono i miei affetti. Siccome una parte di me non la conosco e resterà probabilmente sempre un mistero, Trieste è il posto che considero casa e che mi è familiare. Le spiagge della Thailandia invece rievocano le sensazioni della mia infanzia.

Il tuo primo ricordo d’infanzia e se pensi che questo ricordo sia inficiato o meno dalla memoria fotografica.
Il mio primo ricordo d’infanzia è legato a ciò che mia madre si ricorda. Lei che stende la biancheria e io a due anni che le passo i panni puliti. Eravamo a Bangkok.

La tua tesi del DAMS parlava della fotografia dopo la legge 180 e questo anno ricorrono i 100 anni dalla nascita di Basaglia. Cosa ricordi di quella tua ricerca e delle immagini legate a quel periodo?

Il mio lavoro di tesi al DAMS affrontava l’evoluzione della fotografia legata alla psichiatria dopo l’approvazione della Legge 180, la cosiddetta “Legge Basaglia”. Questa legge, emanata nel 1978, segnò la chiusura dei manicomi in Italia e rappresentò una rivoluzione nel trattamento delle persone con disturbi mentali. La mia ricerca si focalizzava su come la fotografia fosse stata utilizzata sia per documentare le condizioni nei manicomi prima della legge, sia per raccontare il cambiamento sociale e culturale che ne seguì tramite l’archivio. Le immagini di questo periodo sono potenti e spesso disturbanti, poiché mostrano la disumanità dei vecchi istituti e, successivamente, i tentativi di restituire dignità e umanità ai pazienti. Un esempio significativo è il lavoro di fotografi come Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, che nel 1968 realizzarono il progetto “Morire di classe”, un reportage che documentava le condizioni drammatiche dei manicomi italiani e che ebbe un forte impatto sull’opinione pubblica, contribuendo alla mobilitazione per la riforma. Dopo la Legge 180, la fotografia continuò a svolgere un ruolo cruciale nel testimoniare la transizione verso una nuova psichiatria, più aperta e inclusiva, con progetti che cercavano di mostrare i volti e le storie delle persone una volta confinate e marginalizzate. Questi progetti fotografici non solo documentavano la realtà ma avevano anche una funzione etica, interrogando chi osservava e invitando a riflettere su temi di libertà, dignità e inclusione. La ricorrenza dei 100 anni dalla nascita di Franco Basaglia offre un’opportunità preziosa per riconsiderare l’impatto di queste immagini e il loro ruolo nel sostenere il cambiamento sociale. Ho poi fotografato i centri di salute mentale a Trieste l’anno della mia laurea per mostrare il cambiamento nel tempo dei luoghi in cui è avvenuta la rivoluzione di Basaglia. Qualche anno dopo durante il master alla NABA, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano in fotografia e Visual design, ho rifatto dei ritratti agli utenti del CSM e ho chiamato il lavoro I Prescelti.

Ricorre anche nel tuo lavoro Rakshasa (Rakshasa, Exploring Mental Health and AI at UNITS, Trieste) la malattia mentale ed in particolare sulla schizofrenia fai un ragionamento/parallelismo con l’intelligenza artificiale. Mi racconti il tuo rapporto con l’intelligenza artificiale e come e se la integri nella tua ricerca fotografica? Nel regno dell’arte contemporanea, dove il simbolismo e la metafora spesso fungono da potenti canali di espressione, emerge un’installazione che parla delle intersezioni tra la coscienza umana e l’intelligenza artificiale. Il termine Rakshasa, tratto dalla mitologia indù, denota un demone maligno, una metafora adatta per gli aspetti maligni della mente. L’installazione presenta quattro lenzuola bianche adornate con immagini di visioni demoniache, simboleggiando l’intrusione delle problematiche di salute mentale, in particolare la schizofrenia, nella tela dell’esperienza umana. Contemporaneamente, all’interno dei “Muri”, un monitor mostra un video di immagini generate dall’IA provenienti da un album di famiglia scoperto a Nuova Delhi nel 1932, enfatizzando la relazione simbiotica tra mente e macchina. Questo racconto si imbarca in una profonda esplorazione, tessendo insieme le complessità della schizofrenia e il panorama in continua evoluzione dell’intelligenza artificiale, svelando una tappezzeria che sfuma i confini tra percezione, memoria e visioni generate dalla macchina.Esaminare le profondità della salute mentale, in particolare la schizofrenia, rivela la meraviglia del cervello umano, un organo altamente complesso e interconnesso. La schizofrenia interrompe l’equilibrio delicato delle reti neurali, causando sintomi come allucinazioni, deliri e pensieri disorganizzati. Questa interruzione rispecchia l’intricato intreccio di connessioni all’interno del cervello umano. Parallelamente, i sistemi avanzati di intelligenza artificiale, in particolare le reti neurali, imitano la natura interconnessa del cervello umano. La complessità intrinseca a questi sistemi a volte porta a comportamenti imprevedibili, simili alle interruzioni osservate nella salute mentale. Pertanto, la giustapposizione delle intricate reti della mente con la complessità artificiale delle reti neurali offre una profonda metafora per le complessità condivise tra schizofrenia e IA. Il decorso della schizofrenia è caratterizzato dalla sua natura erratica e imprevedibile, con sintomi che variano ampiamente tra gli individui. La progressione non lineare del disturbo rende difficile anticipare la traiettoria dei sintomi. Questa imprevedibilità trova un parallelo negli algoritmi IA, in particolare quelli impiegati nel deep learning. La natura sfuggente dei loro processi decisionali introduce un livello di imprevedibilità paragonabile alle manifestazioni sfumate della schizofrenia. I “Muri” metaforici dell’installazione, adornati con visioni demoniache, diventano una tela su cui si dispiegano le traiettorie non lineari sia della salute mentale che dell’intelligenza artificiale.

(Rakshasa exhibition for the Centenary of UNITS, 2024, courtesy Alba Zari)

All’interno dell’installazione artistica, i “Muri” metaforici dove convergono visioni demoniache e immagini generate dall’IA spingono a un’esplorazione più profonda della relazione simbiotica tra mente e macchina.
L’installazione, che rappresenta la mente che prende il sopravvento sulla realtà attraverso immagini di demoni, traccia un parallelo con la capacità dell’IA di reinterpretare la memoria, creando visioni alternative che agiscono come estensioni della mente umana. L’intersezione metaforica serve come un punto di incontro dove le complessità della cognizione umana si intrecciano con il potere trasformativo dell’intelligenza artificiale. I “Muri” metaforici trascendono lo spazio fisico dell’installazione, invitando alla riflessione sull’evoluzione del rapporto tra la mente umana e l’intelligenza artificiale. In questo punto di incontro, dove convergono visioni demoniache e immagini generate dall’IA, si dispiega una tela che riflette l’intricato intreccio tra realtà, percezione e i vasti regni della mente e della macchina. L’installazione serve come un pungente promemoria delle sfumature e delle complessità condivise che definiscono l’esperienza umana e il panorama in evoluzione dell’intelligenza artificiale.

Hai chiamato il tuo documentario White Lies (bugie bianche). Come sosteneva Kant la menzogna resta un crimine anche se detta a un assassino che ci chiede se stiamo nascondendo un amico da lui perseguitato. Che rapporto hai con le bugie?
Mi trovo d’accordo con Kant. Ho un rapporto pessimo con le bugie e la mancanza di chiarezza e onestà.

Roland Barthes affermava che la fotografia non sa dire ciò che da a vedere.. ma dalle tue interviste si nota la dicotomia di approccio alla fotografia che per te ha anche “una natura ingannevole”. Come usi la fotografia nei tuoi lavori?
La fotografia per me è sempre un punto di vista personale e soggettivo. Non credo nella sua natura documentaria, uso la fotografia e i mezzi tecnologici con consapevolezza, interrogandomi costantemente sul perché e sul come vengano impiegate.

Ti piace l’acqua e il tuo rapporto con il mare si vede anche in FKK ambientato alla Costa dei Barbari. Pensi mai ad altri progetti legati al mare e a Trieste?
Vorrei fare un cortometraggio sul paesaggio sociale presente a Barcola. Filmare le persone mentre si tuffano dagli scogli.

Ci sono dei fotografi e altri artisti visivi che apprezzi della regione FVG?
Stefano Graziani è l’autore che apprezzo di più qui a Trieste. Era anche un mio insegnate alla NABA, Nuova Accademia di Belle Arti.

La tua pubblicazione di cui sei più fiera.
Deve ancora uscire.

In La Camera Chiara di Roland Barthes, il punctum è quell’elemento di una fotografia che colpisce profondamente l’osservatore. C’è una tua foto che consideri particolarmente significativa, che ha avuto un impatto emotivo forte su di te? Puoi descriverla e raccontare la storia dietro di essa?
Tutte le immagini di Diane Arbus hanno avuto un forte impatto su di me durante i miei studi. Mi ha sempre colpito come riusciva ad entrare nelle vite delle persone più fragili con estrema empatia e rispetto.

Nelle foto: Foto tratta dalla serie, I prescelti, 2010. Alba Zari, ritratto. Foto tratta dalla serie Rakshasa, 2024. (tutte le foto: courtesy Alba Zari)